TERESA SAPEY – È L’ARCHITETTA ITALIANA DI MADRID “Nel 1990 volevo mangiarmi il mondo”. “I non luoghi” sono spazi della societá del terzo millennio, sono luoghi nati per risolvere funzioni di vita quotidiana che ci uniscono”.

Intervista di Paola Pacifici

Architetto, dopo la laurea di Parigi, dove ottieni la CEEA, che cos’è?

La prima cosa non mi chiami architetto, i titoli servono per averli incorniciati e riempire di quadri le pareti del salotto, nella vita bisogna dimostrare di saperci fare! Ad ogni modo existe questo CEEA, che é un certificato di studi approfonditi in architettura, un pre-dottorato ovvero dopo il certificato si accede direttamente al dottorato. Il mio indirizzo era sperimentale, uno dei primi al mondo, nei luoghi del lavoro, presso l’ Universitá di Architettura di Parigi La Villette. Vorrei solo sottolineare che io ho conseguito la laurea al Politecnico di Torino e dalla Parsons School di Design, invece a Parigi ho fatto solo questo CEEA. Comunque, insisto, oggi come oggi tutti questi studi servono solo quando sono messi a frutto.

A Madrid nel 1990 hai aperto con il tuo nome uno studio dedicato soprattutto alle “nuove sfide”?

Nel 1990 volevo mangiarmi il mondo! Certamente per l’ etá, l’energia, perché arrivavo dall’ estero ed avevo visto cosa si stava facendo fuori; mentre la Spagna era ancora un po’ ferma, era da poco mancato Franco, parliamo di una Spagna che stava germogliando e che iniziava in quegli anni a fare passi da gigante e che ha continuato a fare per i successivi 30 anni. Ad oggi parliamo di un Paese all’avanguardia dove ho potuto fare delle cose non solo estetiche, belle e funzionali ma anche diverse. Per questo volevo gettarmi in un campo, che era quello degli spazi del lavoro, ma questo é sempre stato difficile, perché la Spagna e sopratutto Madrid é sempre stata una cittá ducale, molto aristocratica che ha sempre vissuto di amministrazione, ministeri, mentre io arrivavo da una cittá come Torino, molto industriale e pragmatica, motivo per cui io avevo in testa l’ industria ed i suoi spazi del lavoro, e che a Madrid scarseggiano. Insomma stavo dicendo, quando sono arrivata a Madrid avevo la testa fasciata da tutti i nuovi concetti, anche con uno sfondo socialista francese. Soprattutto riguardo l’ ergonomia, in Spagna quando nominavo questa parola non sapevano nemmeno cosa volesse dire. Posso quindi dire di essere arrivata con delle nuove idee, una nuova energia per cambiare gli spazi, non solo a livello estetico ma anche funzionale. Di modo che gli stessi spazi migliorassero l’ uomo, perché l’ essere umano si senta più a suo agio: non solo uno spazio bello ma sopratutto pratico e sano.

Teresa, che cosa sono i “non luoghi”?

I non luoghi sono spazi della societá del terzo millennio, sono luoghi nati per risolvere funzioni di vita quotidiana che ci uniscono. Sottopassi, metropolitane, stazioni, corridoi, i famosi parcheggi, che sono luoghi che l’uomo ha sentito il bisogno di inventare per vivere meglio e comunicare, e che peró non hanno un nome, una nomenclatura, uno stile. Una Chiesa lo sappiamo é una Chiesa per il suo altare e la sua croce, un ospedale tristemente sappiamo riconoscerlo bene, un Museo anche! Ma un non luogo? Che differenza c’è tra un non luogo di Shanghai ed uno di Milano? Tra uno di Palermo ed uno di Timbuktu? Che differenza c’è? Nessuna! Sono tutti luoghi abitati da persone che normalmente devono lavorare e che spesso sono sporchi, non curati, perché é provato che ció che non amiamo non lo curiamo, non ci interessiamo. Quindi il non luogo bisogna dotarlo della nomenclatura di luogo per conferigli anche rispetto. Rispetto sociale ed anche il senso del piacere visivo. Passare attraverso un non luogo senza personalitá tutti i giorni, é arrivare giá triste al lavoro; percorrere un sottopasso ideato per l’uomo, che tutti i giorni lo percorrerá, lo faremo arrivare al suo lavoro piú felice e certamente saremo anche artefici del suo benessere quotidiano; la costruiremo ogni giorno, poco a poco come tanti mattoni. Dunque sono tutti quei luoghi della società moderna che non hanno un’ identità, quei passaggi, quelle unioni, quei nodi, quelle gallerie in cui passiamo senza fare attenzione, scale; tutti quei luoghi in cui passiamo gran parte della nostra giornata e che non sappiamo definire pur essendo luoghi utili per lo svolgimento delle nostre attività quotidiane. Ci siamo resi conto che ora passiamo più tempo nei non luoghi che nei luoghi, per questo sentiamo il bisogno di creare una loro identità, anima.

Il famoso ed importante Jean Novel ti definisce come “Madame parking”?

Ah ah ah! Bellissimo! Mi piace da impazzire, perché il parcheggio é maschile ed io sono una donna, ed é qualcosa anche di sensuale, sexy e femminile e quindi lo feci subito mio questo nomignolo! Ma che bello essere Madame Parking! Anche perché non ne conozco nessun’altra. La storia é lunga ed é una bellissima storia lunga. Viene da tempo fa quando partecipai al progetto molto ambizioso dell’ Hotel Puerta de America per il quale ogni piano era disegnato e progettato da un grandissimo architetto internazionale: stiamo parlando di archistar del livello di Foster, Jean Nouvel appunto, Zaha Hadid… Ogni spazio dell’ hotel era giá stato assegnato e quando io mi presentai dicendo che volevo fare qualcosa mi risposero: “Beh é tutto giá organizzato ma se trovi qualcosa da fare…..” ed io con piglio piemontese dissi ad alta voce: “ il parcheggio! Rimane il parcheggio!” e fu cosí che inizió la mia vita da Madame Parking! E poi indipendentemente da questo nome, fu un gran onore partecipare in questo gran progetto; forse ci troviamo di fronte al primo parcheggio di design del mondo.

Architetto, il tuo lavoro è apprezzato in tutto il mondo in cui si applica “il colore degli spazi”, cioè?

Quando ho iniziato a fare l’architetto, come mi chiami tu ehehehe, l’ architettura era bianca, era monocromatica, le cittá erano tutte uguali, non si differenziava piú la Chiesa dal municipio, la Piazza dallo stadio, il museo dall’ospedale; c’era stata quella scuola racionalista purista e sopratutto e soprattutto la pesante influenza del gran genio di Le Corbusier peró mal interpretato, in cui l’ architettura per essere considerata tale doveva essere bianca e la convinzione per la quale un volume giusto non aveva bisogno di colore. Da lí io, nel mio piccolo, volendo essere artista ma diventando poi architetto, decisi di usare il colore come materia e di applicarlo a queste superfici che erano tutte omogenee, tutte uguali, senza frontiera e senza DNA, per dargli un senso, una personalitá. Questo me lo aveva insegnato la Parsons, dove solo dal colore delle stoffe, potevi indovinare la provenienza e la nazionalitá. Una sudamericana avrebbe usato i colori delle terre, un americano i colori artificiali, e un europeo i colori impolverati. Ecco, l’ architettura debe essere cosí: dove sei, dove ti trovi, pensa, guardati attorno, ruba un pezzo di cielo, un pezzo di campo, di mare; attaccalo, catturalo, fallo divenire parte del tuo edificio. Ecco, solo cosí sará un edificio, un’ architettura legati all’ uomo ed al luogo. Per tutto ció io non sono solo architetto, per il fatto di aver studiato anche Belle Arti; per me tutto quello che é plasticità ha un valore non solo estetico ma anche costruttivo. Riesco a costruire con degli elementi, per cosí dire, atipici, che forse vengono più dal mondo artistico che dal mondo architettonico; uno di questi é la luce e l’ altro é appunto, il colore.

Ed il Progetto Finale IED?

Lo IED é l’ Istituto Europeo del Design con il quale ho una lunga amicizia ed una relazione professionale come docente, come tutor e come speaker. Li ho sempre appoggiati, infatti ho ragazzi dello IED in studio come collaboratori, cerco di far capire ai ragazzi che il mondo creativo é un mondo a 360 gradi. Non importa se hai studiato architettura di interni, graphic design, disegno di prodotto, esiste un’ osmosi tra un campo e l’ altro.

Un buon architetto come deve essere?

Il buon architetto, non ha bisogno di essere chiamato cosí, perché i titoli universitari servono solo a chi non ha fatto carriera nel suo campo. E poi, cosa piú importante, oltre ad essere chiamato per nome deve esser umile. Si ricordi memento mori, siamo mortali e l’ umiltà è la nostra forza, l’arma per costruire, il mattone più resistente nel tempo.

Quanto e come ad oggi, la cultura sociale influisce nel tuo lavoro?

Tantissimo! In realtà io sono una scrittrice della contemporaneità attraverso lo spazio: lo scrittore scrive con le parole, noi scriviamo con lo spazio e quello che raccontiamo é la vita contemporanea. E poi, oltre a scrivere la vita contemporanea, i nostri attori, sono gli uomini di oggi. Si tratta di un teatro della contemporaneitá ed attualitá oppure é la tragedia contemporánea, peró per intenderci, i miei clienti ora sono coloro i quali usano Ipad, Iphone, tactile network; ed é per questo che devo fare loro spazi adatti a tutto ció; non parliamo certamente degli stessi spazi delle nostre nonne né saranno quelli dei nostri nipoti.

Cosa significa l’architettura oggi?

L’ architettura oggi é molle. Si trova in uno stato non propriamente liquido, ma si avvicina alla gelatina, é gelatinosa. Prende la forma del contenitore in cui la metti. É meravigliosa perché é illimitata e tutte le forme sono possibili. Purtroppo é anche un po’ catastrofico perché si rischia di farla diventare di pessimo gusto. É qua, giustamente, il grande problema. Più che mai oggi l’ architettura riflette questo nuovo mondo trasversale in cui non ci sono più le gerarchie, in cui l’ uomo sta riscoprendo una nuova identità. In questo mondo l’uomo é un elemento molto più biomorfo e morbido di quello che era prima, siamo passati dalla linea retta alla curva, dall’uomo eretto a un uomo più embrionale. Ci troviamo di fronte agli inizi embrionali di una nuova architettura.

La città del mondo dove la sua storia ed il suo presente si sono uniti ed integrati?

Certamente una città che non conosco, di quelle nuove, in Kirghizistán, Uzbekistán, Mongolia o Russia in quei lontani confini che non conosciamo, dove i popoli non devono rispettare un passato come il nostro. Abbiamo sempre paura di andare avanti, di fare un passo avanti… questo passato forte, Europeo, un mattone che odora di centinaia di millenni e che ci costa moltissimo smuovere e rinnegare. Ma se dovessi proprio scegliere una cittá europea, direi Lisbona. Lisbona era una cittá abbandonata e che solo guardava inerme l’oceano, una cittá di frontera, triste e nostálgica; adesso é tremendamente viva, piena di vita e gente e quindi posso solo parlare di Lisbona come una cittá della contemporaneitá. Ripensandoci bene, posso anche dire un’ altra cittá europea: Marsiglia. Con le sue falangi, con le tante Marsiglie nella Marsiglia; i ghetti del ghetto.

L’architettura italiana ha influito ed influisce ancora nella nostra vita?

Ebbene sí, l’architettura italiana per me é stato il tutto e sarà il tutto. Un elemento che forse mi impedisce di prendere delle decisioni trasversali, trasgressive. Il rispetto del passato, quando ad esempio cammino per Pompei e respiro i nostri avi, quando vado al Museo archeologico di Napoli e rivedo quello che abbiamo fatto millenni di anni fa… sai che cosa? mi vien voglia di mollare tutto: siamo stati già così bravi! chi ci supererà mai!? abbiamo già fatto tutto secoli fa!

Teresa, come sarà l’architetto del futuro?

Sarà sempre una prostituta (ridendo) che costruisce spazi a livello sociale, ma non so se si può dire… ed allora cosa vuoi che ti dica, sarà sempre un sognatore, perché in realtà l’ architetto deve sognare per andare avanti. Sempre nella sua umiltà e semplicità.

Architetto, hai girato il mondo con il tuo lavoro, ma cosa ti porti sempre dell’Italia?

Il mio nome, Teresa. Un nome demodé, dell’inizio del secolo e che è anche il nome di mia zia. E poi direi il nostro senso dell’estetica, la nostra eleganza che va dal pasticcino al cioccolatino, dalla biancheria intima alle città, da uno spaghetto al pomodoro alla grande Roma.

 

Norman Foster