Intervista di Paola Pacifici
Mario, perchè si diventa ballerino? E quando nasce “il ballerino Mario”?
Non so rispondere alla domanda sul perché. Quello che posso dire è che la volontà di approcciarmi alla danza è nata spontaneamente da bambino osservando mia sorella esibirsi nei suoi saggi di danza. Mia mamma desiderava portarmi a scuola di musica ma io insistetti sull’andare a scuola di ballo. Il ‘ballerino’ penso sia nato in seguito, quando in età adolescenziale decisi di voler approfondire e di dedicarmi tutti i giorni con la serietà che questa disciplina richiede. Ricordo che, quando partecipai a vari workshop con danzatori e insegnanti internazionali mi resi conto che fino a quel punto mi ero, si, molto divertito, ma ancora non avevo capito cosa significasse il lavoro vero e che, quindi sarebbe stato necessario un cambio radicale. Così Iniziai a investire dieci volte più tempo ed energie nel mio training quotidiano. Forse quello fu il momento di svolta.
Ha studiato a Roma e poi che tipo di ballo ha scelto?
Ho iniziato subito con la danza contemporanea e uno studio più approfondito del classico, che in realtà io amo e considero assolutamente importante per fare anche tutto il resto. Però sono rimasto sempre all’interno dell’ambito contemporaneo. Il che è un bene, suppongo, perché si parla di un genere molto vasto e variegato. Ci sono così tanti linguaggi e stili diversi, peraltro in continuo cambiamento, descritti col termine ‘contemporaneo’, che a volte faccio fatica a capire cosa esso indichi nello specifico. Ma non me ne preoccupo più di tanto e soprattutto non vorrei limitarmi a un solo stile. Se ne avessi la possibilità studierei altri tipi di ballo molto volentieri.
E poi Spellbound, cosa è?
Spellbound è una compagnia d’autore contemporanea basata a Roma i cui direttori sono Valentina Marini e Mauro Astolfi (per quanto riguarda la parte artistica e coreografica). E’ nata come un progetto teatrale più di trent’anni fa ed è forse fra le poche realtà così longeve in Italia. Sono entrato a far parte di Spellbound quando avevo diciotto anni e vi sono rimasto per circa dodici. Quindi sicuramente ha segnato il mio percorso artistico e di vita in modo molto importante. Vi sono praticamente cresciuto e maturato al suo interno.
Ha ballato in molti Paesi del mondo, quale Paese ama di più il ballo e che tipo?
Per la danza contemporanea, mi permetto di dire: la Germania. Ho notato che in qualsiasi località tedesca vi è l’usanza di recarsi a teatro in modo assiduo. Però ho trovato situazioni diverse e a volte inaspettate ovunque io sia andato. Con la compagnia ci siamo trovati a performare nei contesti più variegati, non solo sui tradizionali palchi scenici dei teatri. Ad esempio una volta in Messico abbiamo danzato su un palco progettato per concerti ed esibizioni di questo tipo, poiché la nostra performance era inserita fra una serie d’eventi, concerti musicali, acrobazie ecc. in occasione di una grande festa nazionale. Ballare davanti a, letteralmente, un mare di persone è stata una sensazione assurda. Il calore da parte del pubblico era simile a quello che le ‘pop star’ ricevono durante i loro concerti. E’ stato molto suggestivo. Mi viene in mente anche la risposta del pubblico tailandese, che è sempre stata di grande apprezzamento. Noto che più è vasta la diversità culturale più è forte l’entusiasmo e la curiosità del pubblico che ci ospita.
Quali sono i ritmi più difficili da ballare?
Personalmente faccio fatica con quelli lenti, soprattutto durante le lezioni di danza classica, però anche quello è utile, per una maggiore tenuta muscolare e per sviluppare tutta una serie di cose. Per quanto essi siano difficili, a volte, vale la pena esplorarli. Uscire dalla propria ‘confort zone’ è quasi sempre un bene e può portare ad un miglioramento.
Un lavoro, una passione, quanto uno è collegato all’altro?
Strettamente collegati. Mi è capitato di dover fare delle produzioni che non mi piacevano e ricordo questi momenti come i più bui e frustranti della mia vita, in cui avrei preferito andare a lavorare al supermercato o cose del genere. Penso che per fare un lavoro creativo sia necessario stimare e credere in esso. Perchè questo è un mestiere che comporta molta molta fatica e lunghe giornate di lavoro, chiusi in uno studio o un teatro; anche alle prese con acciacchi fisici, lunghe attese o cose molto tecniche che possono risultare talvolta noiose, come: puntare le luci, comprendere gli spazi, i segni per terra, le posizioni. tutto ciò risulta più scorrevole quando si è mossi da un autentico amore verso il progetto che si sta facendo. In tal caso si è disposti a concedersi maggiormente. La passione, secondo me, è un buon carburante che consente, in alcuni casi di andare oltre i drammi, le ansie e le pressioni che possono sorgere quando si svolge un lavoro. E la PAZIENZA: un ingrediente molto importante.
I giovani ed il ballo professionale e da professionista? Che differenza c’è fra le ballerine e il ballerino, ci sono tecniche diverse?
Personalmente non amo fare tali distinzioni. Ovviamente lungo la formazione accademica, soprattutto per quanto riguarda la danza classica, c’è questo ’smistamento’; i maschietti vengono separati dalle femminucce. Si procede con studi mirati per ognuno e poi ci si riunisce (il lavoro di ‘pas de deux’ per intenderci) . Ciò è evidente quando si guarda un’opera classica i cui canoni sono gli stessi da anni e anni. Tuttavia la mia non è una critica, al contrario penso sia un buon punto di partenza: iniziare a studiare ‘partnering’ (il lavoro con l’altro) in modo conciso, mi passi il termine, standard, non è mai sbagliato; cioè, non ti impedisce, in un secondo momento, di sperimentare, distorcere, sovvertire, abbattere i ruoli. Lì il gioco diventa molto interessante. Quando si tratta di espressione le regole esistono e non esistono. Un autore nella sua posizione dispone di un certo potere e indicativamente potrebbe mettere in scena ciò che vuole, in quel momento la cosa che conta di più è la sua visione. Quindi per rispondere alla domanda ‘ci sono delle differenze?’ Si! ma anche no, se uno non vuole che ci siano.
Fra tutte le esperienze quale è stata ed è la più coinvolgente per lei?
Probabilmente lavorare con la coreografa e regista Dunja Jocic, conosciuta per la sua qualità di movimento incredibile e l’impronta cinematica che rende riconoscibili le sue produzioni. È stata un’esperienza molto rivelatoria che ha comportato un forte cambiamento in me. Avere a che fare con lei e il suo linguaggio mi ha permesso di sbloccare dei canali che probabilmente erano già al mio interno di cui, però non ero a conoscenza. All’inizio credevo di non essere capace a riprodurre i suoi movimenti, ma in seguito c’è stata una sorta di connessione al punto da sentirmi, ancora oggi, più vicino al suo linguaggio, le sue visioni, che ad altro. In pratica, mi ha aiutato a sentire più ‘mio’ quello che faccio e a sviluppare un maggiore controllo sulla coreografia e sull’interpretazione. Aver fatto parte dei suoi spettacoli è stato qualcosa di veramente gratificante.
E ballare per l’apertura alle Paralimpiadi di Parigi? L’Italia era con lei
Sicuramente la mia famiglia e alcuni miei amici lo erano. Hanno attentamente seguito la cerimonia in diretta tv cercando di scovarmi in mezzo a più di 150 performers. Oltre me, sono stati selezionati molti altri danzatori italiani, per cui non è mancato il supporto durante le ore di lavoro, da parte loro e dagli altri interpreti provenienti da tutt’Europa. In generale è stato un periodo, particolare ma divertente, nonostante la complessità di mettere in scena uno show di tali dimensioni, che, naturalmente andava collaudato alla perfezione. Come ho detto prima, Sapevamo di essere in diretta in mondo visione; quindi la paura di sbagliare era tanta, forse da parte mia un pò troppa, col senno di poi. In realtà questa cerimonia, ideata e coreografata da Alexander Ekman, è stata progettata con l’obiettivo di umanizzare i performers, esaltarne punti forti e vulnerabilità e trasmettere un forte senso di collaborazione. Mi sono esibito insieme a danzatori di qualsiasi tipo, etnia, provenienza, diversamente abili e non, tutti d’un talento spaventoso. Ognuno di loro ha offerto il suo contributo e devo dire, ha dato grandi grandi risultati.
Chi e che ruolo vorrebbe interpretare con un suo balletto?
Me stesso. Non so ancora bene come nello specifico, ma è sicuramente un mio desiderio e un progetto per il futuro.
Cosa vuol dire ballare ? E lei cosa dice ballando?
Ballare, per me vuol dire impersonare la musica. Prima ancora di amare la danza, amo la musica. Parte tutto da lì. Quindi direi che per me ballare è un impulso. Un impulso che viene dalla musica. Si possono dire un milione di cose diverse attraverso il movimento. In fin dei conti non vi è troppa differenza rispetto a un attore che si prepara sulle diverse scene: drammatiche, comiche, di tensione; o da da un cantante che varia l’interpretazione e il suono a seconda del brano. La danza, in modo analogo diventa un mezzo per rappresentare qualcosa, suscitare una riflessione, un pensiero, delle emozioni in chi la guarda. Io penso che essa si collochi in una dimensione di cui fanno parte appunto, la musica, le arti visive, la recitazione, la scrittura, la regia e altro. Tutte si influenzano e tutte hanno bisogno l’una dell’altra.