È un famoso regista ROMA - Fabio Rosi: io voglio creare la realtà da raccontare

Intervista di Paola Pacifici

Fabio Rosi presenta il suo corto “Un Natale del 1945”

Fabio, un importante regista, perchè decidi di fare il regista?

La decisione di fare il regista nasce dal desiderio di poter essere io a creare la realtà da raccontare. Ho iniziato recitando in teatro, ma ogni volta volevo poter dire la mia, e non solo sulla recitazione, ma anche su scene, costumi, luci. Allora ho pensato di passare dall’altra parte.

Sei specializzato al Lincoln Center di New York in “Film making”, cioè?

La mia prima esperienza con il mondo della cinematografia è stata casuale, a New York, dove mi trovavo con la famiglia per il lavoro di mio padre, e avrei voluto fare un corso di teatro che avevo individuato presso la sede al Lincoln Center di New York della Fordham University. Al momento dell’iscrizione, però, mi è caduto l’occhio sul contemporaneo corso in Film Making, che prometteva una sorta di “hands on camera” totale ed assoluto, ovvero un corso decisamente pratico, senza troppa teoria. A volte basta un istante, un’intuizione che cambia le carte in tavola, la scelta, e così è stato. Alla fine ho girato tre cortometraggi, che non solo hanno riscosso un inaspettato successo tra studenti e docenti lì a New York (convincendomi che potevo proseguire), ma che anche ho poi presentato al concorso di ammissione per il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma.

Un importante lavoro alla Cineteca Nazionale per la conservazione e restauro del patrimonio cinematografico. Quali film vengono restaurati?

Dopo il diploma in Regia, ho iniziato a realizzare piccoli lavori per conto mio, rimanendo comunque in contatto con il Centro Sperimentale, in particolare con la Cineteca Nazionale, per la quale ho lavorato moltissimi anni al restauro e conservazione del patrimonio cinematografico. Il momento più curioso? Quando è arrivata la copia in pellicola del mio “L’ultima lezione” per il deposito di legge presso i nostri magazzini, ovvero il film che nel frattempo avevo girato, e che mi ha fatto vincere diversi premi, tra cui il Globo d’Oro della Stampa Estera in Italia: l’ho controllato di persona, schedato ed archiviato nei cellari, con la mia firma di funzionario per l’approvazione. Chissà, un domani potrebbe essere uno dei film scelti per il restauro. Per ora, i film selezionati per i restauri sono in genere i capisaldi della nostra cinematografia, con autori come Fellini, Visconti, Rossellini e via dicendo. Oppure autori viventi cui vengono dedicati eventi o rassegne celebrative, come ultimamente Bellocchio o Moretti.

Hai lavorato con Lina Wertmuller, Mario Modugno, Mario Monicelli, che differenza di regia e di carattere?

Ho avuto la fortuna di lavorare come assistente di Lina Wertmuller, Mario Monicelli e Marco Modugno, due mostri sacri e un esordiente (figlio del celebre Domenico). Burberi i primi due, legati forse anche un po’ al personaggio che si erano creati negli anni, più calmo il terzo, benché sicuro e deciso anche lui. Tre modi di dirigere un set sostanzialmente simili, con troupes numericamente imponenti: ecco, da loro ho imparato come si fa a convivere sul set con decine e decine di persone, sapendo che tutti, nessuno escluso, aspettano da te un’indicazione per partire, altrimenti si blocca la lavorazione.

Fra i tuoi tanti film, quale quello che ti è più vicino come storia?

Tra i miei tanti lavori, sono particolarmente affezionato ad un cortometraggio realizzato praticamente da solo, a New York, nel 1992. “Cheap Philosophy” è una specie di sketch in puro stile Woody Allen, girato in 16mm, a colori e bianco e nero, con cui ho vinto il premio per la miglior regia alla New York Film Academy.

Come è cambiata la “regia” negli anni e oggi cos’è e come è? La regia italiana è una regia europea, e giovani registi che cosa sono i loro film?

Nel corso degli anni, ho assistito ad una vera e propria evoluzione del modo di fare regia. Sarò franco: continuo ad ammirare i padri padroni del film, che comandano e padroneggiano, che rimandano un po’ al Cinema fino agli anni ’70-’80. Fin lì, il Cinema era esclusivamente artigianale, fatto a mano, dove tutto poteva (e doveva) essere tangibile. Con la progressiva introduzione dei vari effetti speciali, poi digitali, pian piano si è un po’ perso il senso del set di cui ho anche parlato prima. Il regista continua a sovrintendere sempre tutto, ma spesso relazionandosi semplicemente con dei computer. Appare quindi scontato che non solo lo stile, ma anche l’umanità del regista, siano molto diversi oggi rispetto a ieri. Molti miei giovani colleghi, oggi in piena attività, a mio avviso hanno guadagnato in esplosione visiva, ma hanno perso in apertura mentale: tutto tende un po’ ad appiattirsi, dove la tecnologia permette soluzioni un tempo inimmaginabili, ma prima o poi uguali per tutti, nel senso che una macchina “inventa” un effetto o visione, ma la inventa uguale per tutti, e tutti (o quasi) si accontentano di capire quella tecnologia e applicarla, rendendo uniformi i risultati. Nessuno (o quasi) si preoccupa più di usare il cervello, quando ne esiste uno che lo fa per te. Lo si vede maggiormente negli USA, rispetto all’Europa, perché ovviamente i soldi investiti dettano sempre legge, va da sé.

E’ vero che la regia” è gli occhi che vedono per te”, ma è anche quello che un regista  ti vuole far vedere?  E’ anche sempre un pò autobiografica?

Il lavoro di un regista è SEMPRE in parte personale e autobiografico. Per quanto uno voglia essere oggettivo, la “porzione di realtà” mostrata è già di per sé una scelta, ovvero un’imposizione allo spettatore, a partire dall’inquadratura: perché non un metro in più a destra, o la mezza figura invece del primo piano? Neanche i documentari naturalistici sfuggono a questa considerazione. D’altronde il set, o comunque l’ambiente dove lavora la troupe di una qualsiasi ripresa audiovisiva, è per definizione il regno di un monarca assoluto, che è il regista. E non tanto perché il regista deve essere necessariamente autoritario, finanche arrogante o presuntuoso: il fatto è, come ho detto in precedenza, che se non c’è uno che ha la responsabilità assoluta di dare il “VIA” e lo “STOP”, si perde denaro.

Gli attori italiani, francesi, inglesi e americani sono molto differenti fra loro hanno modo interpretativo diverso, perchè? E qual è l’attrice e l’attore perfetto per un regista?

Da regista ho ovviamente lavorato con molti attori, quasi esclusivamente italiani. Dico “quasi” perché per “Cheap Philosophy”, di cui ho parlato prima, ho utilizzato due attori americani. La differenza tra le due scuole è abbastanza evidente, e credo possa estendersi ad un più generale confronto tra scuola europea e scuola statunitense. Anche qui sarò franco. Da noi ci si adagia un po’ troppo sul principio che basti essere semplicemente disinvolti, evitando la timidezza, per essere attori: in sostanza, più sei estroverso, più sei attore. Che equivoco madornale. Gli attori americani considerano la recitazione come un lavoro vero e proprio, non come una passione. La professionalità è la vera differenza. In Europa, per questo motivo, salvo un po’ gli inglesi. In parte per gioco e in parte sul serio: ma non sarà che è la lingua inglese l’ingrediente segreto?

Fabio il tuo ultimo film, il prossimo e quello che un giorno farai

Il mio ultimo lavoro, del 2024, è un cortometraggio tratto dal racconto breve di Mario Rigoni Stern “Un Natale del 1945”, con il quale ho partecipato a festival in tutto il mondo, vincendo parecchi premi (anche tre o addirittura quattro alla volta, come in India e Brasile). Il successo del corto mi ha spinto ad indagare sulla breve storia narrata da Rigoni Stern (realmente accaduta), sui due personaggi che la animano, ed ho così deciso di scriverne lo sviluppo completo, per un lungometraggio che racconterà le vicende dei due protagonisti, sullo sfondo della storia d’Italia tra il 1915 e, appunto, il 1945. Ma il mio vero sogno segreto è una futura (impossibile?) trasposizione in pellicola de “Il barone rampante”, di Italo Calvino. Magari con capitali e attori americani, chissà…

Altopiano di Asiago, Natale del 1945. Due uomini, diversi tra loro per estrazione culturale e soprattutto schieramento durante il conflitto appena terminato, un tempo erano come padre e figlio. Poi le loro scelte hanno cancellato quel sentimento. Ora il maestro ex brigatista nero vorrebbe riconciliarsi. I due si ritrovano in un rifugio d’alta montagna.