Tutti la ringraziano…Tutti la ringraziamo LAMEZIA TERME - Amalia Cecilia Bruni: ha scoperto i geni dell'Alzheimer

Intervista di Paola Pacifici

Dottoressa, medico chirurgo specialista in neurologia. Perchè diventa medico chirurgo e sceglie questa specializzazione?

Mi sono innamorata della mente e del cervello a 14 anni quando mi sono imbattuta in un trattato di psicoanalisi, lo studio della psiche, del cervello, mi affascinava. All’epoca non capivo bene ma certo sapevo, sentivo che era quella la strada che avrei seguito. Agli esami di maturità comunico che avrei scelto psicologia: mi consentiva di fare una facoltà di soli 4 anni e dare corso ai miei sogni… Non avevo però fatto i conti con la realtà economica della famiglia: due figli universitari in una stessa città all’epoca si riuscivano a mantenere ma in due città diverse sarebbe stato impossibile. Con una grande crisi personale e lunghe discussioni e giuramenti a mio padre, che mi voleva professoressa di scuola perché potessi conciliare i miei desideri di autonomia e i doveri di essere un giorno madre e moglie, decisi di arrivare allo studio del  cervello passando dalla molto più lunga via della laurea in medicina sei anni, più 4 di specializzazione.. insomma un impegno economico e di tempo ben maggiore… La spuntai dietro la promessa di laurearmi nel tempo stabilito. Ho sempre pensato  in giovane età che la vita te la scegli momento dopo momento. Questo è in parte vero ma quanto il caso, o per dirla all’americana, la serendipity,  giochi invece  un ruolo determinante nel presentarti una serie di situazioni imprevedibili e che ti cambieranno la vita, ho dovuto apprenderlo e realizzarlo con il tempo. Sono diventata neurologa per caso. Colpa o comunque incolpevole responsabilità del bidello dell’istituto di CLINICA DELLE MALATTIE NERVOSE E MENTALI (così recitava il grande cartello). Nessuno mi aveva detto che le due branche fossero già state divise e quando domandai al bidello dove fosse la segreteria per chiedere l’internato lui indicò con il pollice il corridoio in fondo. Se l’avesse girato verso l’alto, al primo piano, sarei diventata psichiatra. Lo realizzai molti mesi dopo, rimasi contenta della scelta casuale che mi appassionava giorno dopo giorno ma forse la scelta successiva di diventare diciamo “dementologa” anch’essa arrivata per una pura casualità, altro non è stato che un ritorno a quel cartello dell’unità che ritengo fondamentale poiché separare mente e cognitività  è impresa ardua, e alla luce di tante conoscenze, inutile. Dunque sono diventata neuroscienziata anche qui per serendipity.

La neurologia, per noi che non viviamo nel suo mondo, cos’è?

E’ lo studio del cervello, della sua anatomia, del suo funzionamento e delle sue patologie. Tante, tantissime e, soprattutto, molte di impatto negativo sulla qualità di vita dei pazienti e delle loro famiglie. I neurologi spaziano come interesse di studio e assistenza dalle emicranie alle demenze e malattie neurodegenerative, alle malattie autoimmuni e infiammatorie o le più frequenti patologie cerebrovascolari. Senza contare che il corpo umano non è separabile, è una unità e spesso malattie “del corpo” hanno il loro riflesso sul cervello. Insomma un campo enorme ma molto affascinante perché pone sfide quotidiane sia nella conoscenza che nell’assistenza.

Quanto è importante nella nostra vita il sistema nervoso centrale e quello periferico?

Essenziali entrambi per la vita evidentemente, in un fluire di comunicazioni bidirezionali. Se vogliamo semplificare e banalizzare direi che il centrale è il programmatore e  il periferico  l’esecutore ma  essendo il prolungamento l’uno dell’altro le comunicazioni sono bidirezionali. Il sistema nervoso periferico è una delle due grandi parti in cui è diviso il sistema nervoso. A sua volta si divide in sistema nervoso autonomo, che controlla i muscoli lisci degli organi interni e le ghiandole, e sistema nervoso somatico, che invece controlla i movimenti volontari e raccoglie informazioni dagli organi di senso. La sua funzione principale è connettere il sistema nervoso centrale al resto dell’organismo. “Avverto delle emozioni (rabbia) e il mio corpo le esprime fisicamente, divento rosso in viso per esempio…Decido di fare un movimento e il mio SN centrale manda impulsi e il SN periferico esegue attivando i gruppi muscolari che servono in quel momento e  sua volta lo stesso SN periferico ritrasmette a centrale per avere eventuali correzioni”.

Nel suo importantissimo CV, quale esperienza lavorativa è per lei più congeniale e gratificante?

Premesso che tutte le esperienze lasciano un segno nella vita di una persona che nel tempo diviene “una sommatoria” di queste diverse modalità, spesso complementari, e dunque tutte arricchenti,  devo dire che la principale, ovvero il mio lavoro nel Centro Regionale di Neurogenetica è stato in assoluto il più gratificante. Sembrerà strano che in un piccolo ospedale del sud si raggiungano livelli di soddisfazione elevati ma la straordinarietà del Centro che ho avuto l’onore di “sognare”, realizzare e dirigere risiedeva esattamente nel fare ricerca e contemporaneamente assistenza alle persone. Quando le malattie di cui ti occupi sono inguaribili, la ricerca diventa lo strumento della speranza per i pazienti, le famiglie e  per gli stessi medici. Un contrasto forte al burn out. Inoltre, tenere insieme l’assistenza quotidiana ai pazienti, la ricerca clinica di segni e sintomi, lo studio storico-genealogico delle famiglie e delle popolazioni  per la ricostruzione nei secoli di tratti ereditati, lo studio genetico molecolare del DNA, è stato quello che ha permesso di fare tante acquisizioni importanti e di giungere a mettere punti esclamativi lì dove c’erano solo punti interrogativi. Questo ha significato lavorare con professionisti che avevano competenze diverse che si sono integrate in un tutt’uno con un entusiasmo fantastico.

Dottoressa, quando, come e perchè comincia la sua ricerca sull’Alzheimer?

Un caso, la serendipity di cui parlavo prima. Appena laureata, (massimo dei voti e in 5 anni e una sessione – per fare contento mio padre),  il richiamo potente della Calabria, la voglia di contribuire alla rinascita del Sud  assieme al diniego di una borsa universitaria e alla voglia di cominciare subito a lavorare per essere indipendente, mi fanno decidere di rientrare in Calabria. Dopo qualche anno mi ritrovo a vincere un concorso per assistente neurologa (come ci chiamavano una volta) nell’ospedale di Lamezia Terme dove esisteva un piccolo servizio di Neurologia che offriva consulenze dal PS a tutti i reparti compresa la pediatria e la terapia intensiva neonatale (croce e delizia per un neurologo dell’adulto). Ma il tempo dello studio tra una consulenza e l’altra era tanto, il PS seppure incombente non era certo come ora… E tra uno studio per la specializzazione, e uno studio di neurologia neonatale, tra le carte infinite che una scrivania di un’ ospedale contiene, trovai in un quadernone delle lettere di un “tal”  Foncin neurologo, anzi neuropatologo della Salpetriere… che solo a pensarci ancora mi vengono i brividi. La Salpetriere è l’istituto in cui lo studio delle scienze nervose e mentali sono nate. Charcot, Dejerine, Babinsky tutti nomi di neurologi che hanno lì lavorato e lì hanno identificato segni di semeiotica importanti, strumenti ancora oggi adoperati. Mi sembrava una cosa inaudita e al contempo miracolosa che quelle lettere fossero li, da anni e nessuno avesse mai risposto, erano lettere che chiedevano collaborazione per lo studio di una famiglia in cui la malattia di Alzheimer si trasmetteva di generazione in generazione…. Non avevo mai sentito parlare di una Alzheimer ereditaria. Sul mio libro di testo, non c’era nulla …tre righe dedicate… Dal leggere queste lettere alla decisione di procedere a contattare il professore francese non fu semplice. Io avevo 27 anni, non ero “nessuno” e lui era un NOME della mitica Salpetriere. Cosa avrei detto e cosa avrebbe risposto…il mio francese sarebbe stato sufficiente? Ci pensai giorni e giorni…poi decisi. Scrissi, rispose …poi telefonai…e dopo una settimana LUI arrivò armato di un computer portatile che era un trasportabile, occupava una intera macchina. Fu lì che cambiò la mia vita e appresi che le grandi persone e le grandi menti sono tali proprio perché la dote più straordinaria che hanno è l’umiltà. Anni dopo lo avrei potuto verificare su un altro straordinario personaggio amato dal mondo intero, ovvero Rita Levi Montalcini con la quale si creò un rapporto importante.

Che cos’è il “gene” dell’Alzheimer e perchè si chiama così?

Un gene è un pezzo di DNA che codifica per una proteina. Noi altro non siamo che l’espressione dei nostri geni anche se sappiamo molto bene oggi che anche l’ambiente può modificare una grossa parte del nostro DNA. Il gene dell’Alzheimer (ne esistono però diversi) è un pezzettino di DNA che ha subìto una mutazione (cambia una letterina della sua sequenza) e questo è determinante nel causare la malattia di Alzheimer. Questo accade però in una forma specifica, rara, meno dell’1% di tutte le forme di Malattia di Alzheimer, si trasmette di genitore in figlio, indipendentemente dal sesso ed esordisce in media a 40 anni!

E’ una malattia che colpisce maggiormente più gli uomini, le donne e che età? Ma c’è l’Alzheimer dei giovani?

La malattia di Alzheimer più comune è molto frequente (circa il 7% delle persone sopra i 65 anni) e man mano che si invecchia la possibilità di svilupparla aumenta. Le donne hanno un rischio molto più elevato. Si esiste l’Alzheimer dei giovani e anche in forma NON ereditaria. E’ comunque anche la forma sporadica ed è abbastanza rara nei giovani.

Nel mondo qual è il Paese che ne è più colpito e le cure sono tutte uguali?

La prevalenza della malattia è praticamente  uguale in tutto il mondo. Prima era appannaggio quasi esclusivamente dei paesi ad alto livello economico ora anche nei paesi più poveri. Questo è spiegabile sulla base dell’allungamento della vita media che anche in questi paesi si è verificato. L’invecchiamento è il fattore di rischio più potente, ma non è la causa attenzione…Le cure cominciano a diversificarsi…ma speriamo che possano arrivare anche in Italia i nuovi farmaci innovativi. Certo hanno un alto rischio di effetti collaterali, non sono certo per tutti o per tutte le forme di Malattia di Alzheimer e richiedono una grande esperienza ma sono sicuramente una nuova strada che può essere seguita in taluni casi. L’EMA ha approvato e dunque penso che in un tempo relativamente breve arriveranno anche in Italia. Questo però dovrà comportare necessariamente una variazione della capacità diagnostica. Sono farmaci che possono avere un senso solo se dati ai primissimi segni di malattia e né le famiglie né i medici sono avvezzi ad identificarli con precisione. Ci vuole “un sistema diagnostico clinico-biologico integrato” capace di identificare coloro che presentando primissimi campanelli d’allarme poi evolveranno davvero verso la malattia di Alzheimer e non verso altre patologie o ancora che rimarranno con quei campanelli d’allarme tutta la vita e non andranno mai avanti… E questo ha un costo importante e una difficoltà organizzativa non da poco, tra l’altro in una sanità così devastata come quella italiana e nel mio sud in particolare… Cionondimeno andrà fatto…

Questa malattia è più “dolorosa” per i  pazienti o per i familiari?

La malattia ha diverse fasi e all’inizio in genere la persona che sta sviluppando la malattia capisce che “perde colpi, perde pezzi” e questo è molto angosciante. Tuttavia nell’evoluzione vengono compromesse dalla malattia anche aree cerebrali che sono quelle che ci consentono di avere “il senso del sé”. Quando queste aree sono coinvolte dalla malattia la persona “probabilmente” perde la capacità di comprendere cosa succede. Dico probabilmente poiché è difficilissimo essere certi di quello che prova una persona con la malattia di Alzheimer. A volte anche in fasi molto avanzate capisci che quel paziente in qualche modo c’è, magari a sprazzi, ma è presente anche se per pochi attimi. La famiglia è drammaticamente coinvolta. Vede il proprio caro disgregarsi, non accetta la malattia, non  capisce inizialmente, poi non lo riconosce e i sentimenti sono drammaticamente contrastanti. Da un lato il bisogno di proteggere e contemporaneamente il desiderio di liberarsene. I sensi di colpa la fanno da padrone. E’ un percorso terribilmente doloroso, i figli divengono genitori, si invertono i ruoli. Non si è mai preparati e per questo è indispensabile  per loro, per i caregiver l’informazione, la formazione e il sostegno. L’Alzheimer, così come tutte le altre demenze sono malattie ad oggi inguaribili ma “curabili” quando per cura intendiamo non solo lo smussare dei sintomi con farmaci adatti ma anche la presa in carico in un ambiente accogliente che “normalizza” la malattia e in cui i caregiver formali e informali (familiari e assistenti) assieme alle persone ammalate sviluppano insieme un sistema curante in equilibrio. Questo non cambia l’evoluzione della malattia che purtroppo andrà sempre avanti ma migliora nettamente la qualità di vita. Noi non possiamo, ad oggi, cambiare l’evoluzione ma possiamo fare in modo che la vita ci sia NONOSTANTE LA MALATTIA. Tuttavia la ricerca sta seguendo molte strade e sono certa che terapie farmacologiche (alcune già presenti nel panorama internazionale) potranno arrivare e migliorare la situazione. Ma un‘arma importantissima e in essere già oggi è la prevenzione. Oggi abbiamo i dati scientifici per poter dire che possiamo combattere il rischio di sviluppare le  demenze combattendo i fattori di rischio. Ne sono stati identificati 14 ad oggi. Molti sono i fattori di rischio cerebrovascolari (ipertensione, colesterolo cattivo, diabete, obesità) ma anche il non fare attività fisica e la mancanza di socialità assieme  alla riduzione di vista e udito sono elementi che se contrastati e corretti riducono il rischio. Se riuscissimo a mantenere degli stili di vita sani e a camminare 5 km al giorno avremmo ridotto moltissimo il rischio di sviluppare demenza!

Fondatrice e Presidente dell’Associazione per la Ricerca Neurogenetica, per chi è per che cosa?

Ho fondato l’associazione nel lontanissimo 1992. All’epoca non si poteva neanche nominare l’Alzheimer. Era un tabù spaventoso, se ancora oggi lo stigma è potente immaginate 33 anni addietro! E soprattutto nel mio territorio dove queste persone avevano la forma ereditaria, vissuta come se fosse una colpa della famiglia! Era indispensabile avere degli strumenti che li potessero aiutare (fuori dall’ospedale) ma che nel contempo li proteggessero. L’attività di ricerca che avevo iniziato doveva essere altrettanto sostenuta dalla collettività, era di fatto una scommessa più culturale che scientifica. Non sarei andata da nessuna parte se non avessi avuto il sostegno dei tanti che credevano che “anche in un piccolo ospedale si potesse fare ricerca”. Ma fondare una associazione che recava nel nome la malattia poteva essere un ulteriore dramma per le famiglie. Fu per questo che ci inventammo un nome che diceva tutto e nulla, che era ampio, indistinto. Del resto studiavamo anche altre malattie… Ed è così che è nata l’ARN oggi ancora vivissima e presente sul territorio con la sua Casa Alzal, il suo Alzheimer caffe, i suoi gruppi di sostegno per i familiari, le sue iniziative, la formazione che realizza per tanti operatori e cittadini.

Lei Dottoressa senza dubbio io la definisco “Orgoglio Italiano”. E’ presente e citata nella Enciclopedia Treccani. CHE ONORE, tutto naturalmente meritato. GRAZIE da parte di tutte le italiane, degli italiani e di tutta l’umanità, attraverso il mio giornale.